Il 1980 è l’anno dell’assassinio di Piersanti Mattarella, della strage della stazione di Bologna, della stagione dei cadaveri eccellenti e degli omicidi, in Calabria, di Peppe Valerioti e Giovannino Losardo, militanti del partito comunista impegnati in prima linea contro la mafia.

Ne hanno parlato a TrameXtra lo storico inglese John Dickie e l’esperto di organizzazioni criminali e già deputato Enzo Ciconte, autore di “1980. Alle origini della nuova ‘Ndrangheta”.

Nel contesto delle contrapposizioni più dure tra la ‘ndrangheta e il partito di sinistra, le loro morti a Rosarno e Cetraro, presto finite nel dimenticatoio, dimostravano che la mafia aveva valicato i confini tradizionali per occuparsi di nuovi affari economici.

Peppe Valerioti era il segretario della sezione del Pci. Quando una lupara lo colpì si trovava in un ristorante del vibonese insieme ai suoi compagni per festeggiare la vittoria appena ottenuta alle elezioni amministrative. La ‘Ndrangheta aveva deciso di colpirlo proprio quella notte perché aveva capito che il Partito Comunista rappresentava l’argine che si frapponeva al proprio tentativo di impadronirsi delle assemblee elettive e delle istituzioni.

“Infiltrandosi e governando la Cosa Pubblica, infatti, le famiglie mafiose avrebbero avuto in mano un potere immenso che avrebbe permesso loro di intercettare e accumulare le ingenti risorse di denaro pubblico destinate a quel territorio.

All’indomani dell’omicidio il sindaco annunciò che si trattava di un fatto di donne che nulla aveva a che fare con la mafia: un depistaggio che funzionò e che non permise di individuare i mandanti” – racconta Ciconte.

Giovannino Losardo era invece il segretario capo della Procura paolana ed esponente del Pci. Per la sua morte fu accusato in qualità di mandante Franco Muto, noto come il “Re del pesce” di Cetraro. Nonostante il processo vedesse alla sbarra altri quattro imputati, tutto si concluse con un nulla di fatto.

Era chiaro, in entrambi i casi, che la mafia volle uccidere per tentare di porre fine alle denunce portate avanti dal partito verso gli interessi criminali nell’utilizzo dei fondi pubblici. 

“Il 1980 è l’anno in cui la ‘ndrangheta dall’era premoderna si catapulta in quella moderna: capisce di aver bisogno di entrare nei consigli comunali candidando i propri rappresentanti e inizia a slegarsi dal mondo agricolo per abbandonare il suo aspetto folkloristico e diventare impresa. 

Non era più frutto di arretratezza, ma si apriva alla modernità”.

Su cosa fosse la ‘Ndrangheta iniziarono a interrogarsi e scontrarsi il Pci e il Psi prima, la Chiesa e la magistratura poi.

Le conseguenze di ciò che avvenne altro non sono che quello cui assistiamo ancora oggi: l’egemonia inarrestabile dell’organizzazione mafiosa calabrese.

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